OGGI 04-06-1999 DIVERSE REALTA’ ANTAGONISTE DI MESSINA HANNO LIBERATO,OCCUPANDOLO, UNO DEI TANTI SPAZI ABBANDONATI DI QUESTA PUZZOLENTE METROPOLINA DEL SUD.
HASTA SIEMPRE
MESSINA CITTA` D’EUROPA – Cittadini di un Europa unita nel guadagno, nella burocrazia, negli scarti del Prodotto Interno Lordo, creata dalle multinazionali del potere e ad esse strumentale nelle forme e negli obiettivi sentiamo distante, fredda ed antitetica un?unione che tale non è. Da Davos a Colonia, da Napoli a Parigi, un’altra Europa unita nella lotta, urla e manifesta il suo dissenso quell’Europa che dell’unione e della globalizzazione sconta gli effetti più devastanti. L’Europa dei precari, dei disoccupati, dei senza casa, dei giovani dalle speranze drogate, degli immigrati, di tutti gli esclusi. Se unione comporta rafforzamento, questa provoca solo concentrazione di capitali, nuove e più sottili forme di oppressione, di esclusione di abbandono. Un’unione non basata sul confronto ed il rispetto delle differenze ma sull’appiattimento, sull’imposizione, sulla ‘normalizzazione’ forzata. Ecco la loro Europa. Un Europa che fonda la sua forza, sull’arretramento vertiginoso di diritti acquisiti con lotte che l’avevano attraversata trasversalmente negli anni ’70, per garantire quella flessibilità e quella precarizzazione che dovrebbe permettere all’Europa dei potenti di divenire la principale antagonista al monopolio yankee. Parole che sono a noi tutti note come flessibilità, precarietà, lavoro interinale, L.S.U., nascondono un progetto più ampio che mira a standardizzare i bisogni ed i diritti per più facilmente controllarli e convogliarli secondo le spinte e le esigenze del mercato. Un lavoro precario, una casa precaria, una città precaria, un’esistenza precaria. Tutto questo è quello che viviamo ogni giorno nell’Europa dei ricchi. Se i soggetti deboli europei scontano la precarizzazione dell’esistenza un po’ più distante, la stessa possibilità di esistere viene messa in discussione. Proprio in questi giorni 500 indiani, attraversano l’Europa manifestando contro il neoliberismo che, se per noi è un termine sul quale speculare e fare conferenze, si traduce per loro in morte, povertà, depauperazione. Ma il controllo non passa solo attraverso neoliberismo e globalizzazione, talvolta i poteri economici hanno bisogno di conquistarsi nuovi territori, nuovi mercati. Quest’Europa forte, per oliare i suoi meccanismi di oppressione necessita di guerre, guerre per aumentare il dominio economico-culturale, guerre per garantire il circolo di capitali, per incrementare un’economia senza etica. Guerre ‘umanitarie’, ufficialmente create per difendere diritti, che nascondono in realtà quella logica di controllo alla quale nessuno può sottrarsi, e che tendono a costruire un ordine voluto e funzionale a questo colosso in costruzione. Là dove invece un popolo, come quello kurdo, rivendica la propria volontà di autodeterminazione, non accettando di sottomettersi ad altre forme di dominio, la risposta fornita dalla civile Europa è il totale silenzio o una formale partecipazione che non metta a repentaglio i fruttuosi rapporti economici con l’oppressore. In questo quadro l’Italia ha un ruolo tutt’altro che subalterno, la guerra in questione trova la sua principale base logistica nel nostro paese, punto di partenza di un intervento militare che seppur riv! olto contro logiche nazionalistiche inaccettabili, create da 50 anni di storia, funzionali allo smantellamento di una zona di confine tra i due blocchi contrapposti durante la guerra fredda, e perpetuato tutt’oggi attraverso le nuove forme di colonialismo militare ed economico, non ottiene altro che l’espansione vertiginosa delle sofferenze e mostra come la guerra non possa rappresentare una soluzione ai conflitti. L’opposizione a questa guerra ha ricompattato un movimento di lotta eterogeneo e conflittuale al suo stesso interno, e ha visto punte di opposizione concretizzate in azioni forti e decise in grado di aprire un dibattito e un contrasto su questo conflitto e sulla politica neoliberista della presunta sinistra governativa, sempre più diffuso ed allargato. Il movimento antagonista attraverso piazze e strade manifesta il suo dissenso contro la guerra e la riscrittura di un già iniquo patto sociale, e quindi è in completa antitesi ad un’azione che spostando l’interesse ve! rso vecchie e irrisolte fasi della storia italiana, rendendo possibile l’accettazione silenziosa di politiche restaurative ed interne alla logica ‘unica’ di precarizzazione/globalizzazione. Un nuovo patto sociale che frutta disoccupazione, che accentua l’instabilità, che aumenta la frattura tra un’Italia che lavora e produce nel nord industriale, e una che consuma e viene sfruttata secondo forme esteriormente nuove ma intrinsecamente legate al ‘caporalato’, ad una forma di mafia da tempo già presente nel territorio meridionale. Se questi sono i parametri per entrare nell’Europa dei ricchi Messina ne fa sicuramente parte. Disoccupazione come fenomeno di massa, sfruttamento come norma operativa, annientamento di prospettive per soffocare le speranze ed i conflitti. In un contesto di tale desocializzazzione sia nei quartieri privi di ogni spazio aggregativo, veri e propri dormitori, sia al centro che propone sempre le stesse forme vuote, mercificate (pub-endas), e selettive per reddito si inserisce una progettazione urbanistica che tende all’assemblaggio in enormi blocchi disumani di cemento e ad un’assoluta mancanza di valorizzazione delle piazze e delle isole pedonali. La politica prevalente è quella della costruzione delle grandi opere, nulla importa se nei quartieri più del bar come spazio di incontro non si può pretendere, se le scuole somigliano a carceri, se l’eroina continua ad essere una delle poche forme di evasione da una realtà insostenibile. Lo sfondo di questo modo di fare politica non è la città con i suoi bisogni ma il rituale elettorale. In attesa di un ritorno ad una politica reale una cosa è certa: ai nostri uomini politici che qualcuno ragioni per i fatti suoi da un po’ fastidio, che poi ragioni assieme agli altri diventa per il nostro codice penale già un?ipotesi di adunata sediziosa specie se poi il ragionamento è seguito dall’azione comune. Sfortunatamente tra un TG e l’altro, accade che qualcuno si fermi a riflettere e non sia proprio convinto dalla vita che è costretto a condurre e magari ne incominci a parlare con qualcun altro. Accade, è accaduto, accadrà e lor signori, con tutte le tecniche sempre più ra! ffinate a loro disposizione non riusciranno mai ad evitarlo. E? accaduto anche qui, a Messina, alla periferia dell’impero globale, non per la prima né per l’ultima volta: ricordiamo l’esperienza del C.S.O.A. ‘FATA MORGANA’ aperto dall’occupazione del dicembre 91 e chiuso dalla mano poliziesca nell’aprile del 93.E` accaduto di nuovo ed anche questo documento ne è una ‘parziale- espressione. In tale contesto la necessità di ripensare il proprio tempo e la propria vita porta un nucleo di persone ad unirsi forti della diversità, nel rispetto dei percorsi e delle esperienze altrui, con la ferma convinzione che solo la dove la contaminazione culturale è praticata si ‘conquista’ la ‘reale’ libertà. Solo attraverso un radicale mutamento di prospettiva, quello fornitoci dall’autorganizzazione, siamo convinti di poter rappresentare una spora culturale e politica attraverso la quale rimettere in discussione argomenti e ragioni da troppo tempo dati per scontati, e porre nuovi quesiti ad un mondo in apparente mutazione. Socializzazione, aggregazione, comunicazione sono per noi fondamenti di un’esistenza divenuti ormai astratti; il tempo ci viene organizzato secondo logiche di produzione, gli spazi negati ed abbandonati da uno stato assente. Rifiutando di dover delegare ad organismi atrofizzati e burocratizzati il compito di decidere per noi, cerchiamo nuove risposte ad i nos! tri bisogni. Attraverso un percorso costellato di confronti e di assemblee, segnato dall’eterogeneità dei contenuti si è giunti ad un’espressione antagonista, alla ricerca di nuove forme di comunicazione, convinta della necessità di un’informazione e di una cultura estranea al sistema capitalistico. Esso invece attraverso la pianificazione di un modello formativo da una parte sempre più elitario e dall’altra sempre più asservito alla logica aziendale trova come tassello conclusivo la riorganizzazione dei cicli scolastici. Tendenza questa che avvicina troppo lo studente al ruolo di lavoratore flessibile e precario in un mercato del lavoro sempre più sfruttatore e neoliberista. La scuola ha smesso di eseguire il suo compito pedagogico per buttarsi sempre più nel mondo dell’impresa. Situazione questa che si ritrova anche al di fuori della scuola, piazze, strade, luoghi di socializzazione ‘puzzano’ di merce. Il trend ci sommerge ed il mercato gioca le sue carte accanto a noi, rendendoci inaccessibili pubs, locali, concerti, teatri, sport e quant’altro si voglia o piaccia a discapito del diritto all’esistenza. Stiamo parlando di una migliore qualità della vita che viene negata da una società che fonda la sua forza sulla continua precarizzazione delle soggettività più deboli. I! nnalzamento dell’età pensionabile e tirocini professionali obbligatori a 16 anni, è questa la cura per il futuro. Sindacati e partiti hanno ormai fatto il loro tempo e noi non crediamo più alle deleghe. Nessuna fiducia a questo governo di ‘sinistra’ che, per esempio, è riuscito a parificare scuola pubblica e privata, cosa che in quarant’anni di governo democristiano non si era riusciti a fare. Creare antagonismo a questo stato di cose ci sembra il minimo e farlo in modo autorganizzato e dal basso la forma migliore. Creare collettivismo assembleare come momento decisionale all’interno di spazi e tempi liberati; autorganizzarsi tra lavoratori, precari, e disoccupati, creare gruppi di auto sostegno per chi subisce le dure ed amare regole del mercato del lavoro, opporsi con ogni mezzo necessario a questa scuola azienda che sfornerà lavoratori ignoranti e precari. Liberare spazi per adottare metodologie di confronto e di crescita collettiva, per riunire forze antagoniste. Naturale ! dimensione nella quale il discorso sull’autorganizzazione si inserisce diviene, quindi, tra le altre, quella dello spazio. Occupare uno spazio abbandonato per restituirlo alla collettività, diventa porre non un problema vertenziale, ma scardinare la stessa essenza di un sistema che sull’abbandono e sulla marginalizzazione, sulla speculazione e sull’esclusione fonda la sua forza. Riutilizzare uno spazio ‘LORO’ riappropriandosene e rivendicando la legittimità di quest’azione, trasformandolo in ‘NOSTRO’ vuol dire minare l’assenso costruito con repressione, disgregazione ed alienazione. L’occupazione denuncia quindi questa e tutte le altre giunte comunali per gli inaccettabili sperperi di patrimoni pubblici ma rappresenta anche una forma attraverso la quale poter costruire antagonismo, con la quale ritagliarsi spazi liberati sempre più numerosi. In una fase nazionale nella quale sempre più spazi scelgono ‘istituzionalizzazione’ più o meno dichiarate, ci sembra indispensabile, ripartendo dalla nostra specificità meridionale ed insulare, ribadire che la conflittualità che i posti occupati possono esprimere non è per nulla scemata. Dal sud di questa ricca Europa è ancora possibile vedere senza confusioni gli effetti devastanti delle politiche neoliberiste portate avanti da fior fiore di governi europei nominalmente di sinistra. Riappropiazione di spazi, come nuova vita a luoghi abbandonati, per uno spazio dove ognuno possa esprimersi senza condizioni, nella volontà comune di interagire con coloro che vivono altre forme di oppressione, per un centro ove le esperienze siano collegate non da interessi economici. Autoproduzione perché arte è creazione pura e semplice, per veicolare nuovi contenuti, nuovi colori, nuovi suoni senza rapporti di sudditanza o di puro vantaggio economico. Un C.S.O.A. costituisce per noi uno spazio libero, un campo fertile da coltivare insieme, nel quale far germogliare tutte quelle potenzialità inespresse perché soffocate dalle regole del mercato dal rampantismo che lo caratterizza. La logica della concorrenza può determinare il desiderio della collaborazione. Lo standard della quantità può risvegliare la nostalgia della qualità. E’ questo il patrimonio dell’autogestione, che parte dall’autodeterminazione dal basso dei propri bisogni, slegato da teorizzazioni neo-imprenditoriali e neo-assistenziali, basato sulla sperimentazione di nuove forme di agire sociale e politico, ma che non intende lasciarsi appiattire o sussumere da nuove e più sottili forme di repressione che vorrebbero ridurre tutto ad un’ enorme azienda no-profit o ad organizzatissime discoteche ‘autogestite’. Questo è quello che vogliamo mettere a disposizione di noi stessi e di tutte le coscienze non ancora assopite in questa città. Invitiamo quindi tutte quelle individualità e soggetti collettivi che intendono partecipare a questo percorso ad attivarsi immediatamente per riempire con i nostri ed i vostri contenuti questo nuovo spazio di libertà.
C.S.O.A. VIA OLIMPIA di fronte alla scuola ‘Dina e Clarenza’ di S.Licandro